Articolo pubblicato in "Il Progettista Industriale" luglio 2001 - Tecniche Nuove - Milano
Il progetto di oggetti a geometria sculturata è più facile ed efficiente con il reverse engineering sintetico, basato sulla realizzazione del mock-up fisico dell'idea iniziale e sulla derivazione da questo del modello CAD tridimensionale. In quest’articolo, è illustrato un esempio reale e inconsueto di applicazione di tale metodologia, ponendo a confronto una soluzione ad alta tecnologia con una più semplice, ma economica, messa a punto dagli autori.
Nella realizzazione di forme, generalmente tramite superfici, il modellista CAD può trovarsi di fronte a diverse situazioni. Nel settore della meccanica, in particolare in quelli automobilistico e aeronautico, le forme devono essere realizzate nel rispetto di precisi vincoli di progetto, che si esprimono con l'imposizione del passaggio delle superfici che le rappresentano per determinate curve, solitamente appartenenti ad altre parti già modellate. Si tratta quindi di un "constraint form design", e nel caso, più specifico, in cui le superfici devono interpolare un set di punti calcolati o una famiglia di curve calcolate, si parla di "shape design analitico".
Situazione ben diversa è quella dello stilista, che non essendo strettamente vincolato al rispetto di particolari vincoli di progetto, può essere guidato prevalentemente da motivi ispiratori estetici creativi. E' ciò che accade nel mondo dello stile, che spazia dalle carrozzerie d'automobile e dagli allestimenti d'interni di aerei e navi fino all'oggettistica del mondo dei beni di consumo. Le superfici che delimitano l'oggetto di stile da modellare, in una prima fase, possono essere create liberamente dal progettista, nel rispetto della sua idea progettuale, per essere poi conformate a criteri d'ingegnerizzazione del prodotto. In tutti questi casi si parla di "free form design" o di "shape design sintetico".
A volte, il progetto anziché seguire il flusso logico normale o diretto, vale a dire dall'idea al prodotto finito, deve subire un'inversione (reverse engineering), in modo da ricavare da quest'ultimo l'idea progettuale che lo ha originato. Nell'industria manifatturiera, ciò è ottenuto tramite la digitalizzazione del pezzo fisico, che costituisce il prodotto, con una qualunque apparecchiatura (tomografia computerizzata, risonanza magnetica, ultrasuoni, macchine di misura a coordinate, laser scanner o tracker) in grado di restituire sotto forma digitale il risultato della misura di un set di punti appartenenti alla superficie esterna dell'oggetto. Il passo successivo consiste nell'ottenere il modello virtuale del pezzo, con la modellazione con un sistema CAD delle superfici che delimitano l'oggetto, utilizzando tecniche d’interpolazione della nuvola di punti digitalizzati.
A questo punto la strada si biforca. Se il reverse engineering ha lo scopo di ottenere un modello virtuale "fedele" del pezzo fisico, in maniera da permetterne una clonazione, il passaggio delle superfici per la nuvola di punti è un vincolo fondamentale, che il modellista deve sforzarsi di rispettare il più possibile, raggiungendo un buon compromesso con l'esigenza opposta di una buona filanza delle superfici stesse. L'intero processo, dall’acquisizione dei dati digitali alla realizzazione del modello virtuale CAD, può essere definito come "reverse engineering analitico". Se, invece, l'obiettivo del reverse engineering non è la clonazione del pezzo, bensì la creazione di un suo modello virtuale a scopo di "variazioni sul tema" del suo stile, il passaggio delle superfici per la nuvola di punti digitalizzati non è così vincolante come nel caso precedente, e si parla di "reverse engineering sintetico". Quest’ultima tecnica è molto efficace nei casi di free form design in cui la geometria dell'oggetto da progettare è talmente irregolare e complessa, che la creazione con il CAD del modello matematico, servendosi direttamente delle pur potenti funzionalità di un modellatore geometrico di superfici, sarebbe difficile anche per un esperto modellista. In questi casi, è molto più facile e conveniente materializzare in un modello fisico l'idea iniziale [1] , per svilupparla successivamente con un sistema CAD tridimensionale. Si tratta, quindi, di una tecnica congiunta analitica e sintetica di shape design: analitica nella fase di trasposizione dell’idea progettuale dal modello fisico al modello virtuale CAD, sintetica nella successiva fase di libero sviluppo stilistico.
Applicando tale metodologia, si fissa la prima idea stilistica in un modello fisico di legno o di creta, eventualmente in scala. Oltre le difficoltà di modellazione CAD accennate, nell'adozione di questa metodologia, probabilmente, gioca un ruolo importante la possibilità per il progettista di operare direttamente nello spazio tridimensionale, effettuando anche in tal caso una simulazione dell'oggetto finale, ma di tipo diverso rispetto alla simulazione tramite un sistema CAD. In una simulazione, in generale, si possono distinguere due attori fondamentali: l'uomo e il sistema, vale a dire tutto ciò su cui l'uomo opera. In una simulazione si possono simulare l'uno o l'altro, oppure entrambi. Nella realizzazione di un modello fisico, è simulato il sistema attraverso il mock-up fisico che lo sostituisce, mentre la presenza dell'uomo non è simulata e questo fa sì che l'attività creativa risulta più diretta, rispetto all'utilizzo di un sistema CAD, con il quale, invece, anche la presenza dell'uomo è simulata, essendo sostituita dal computer. Questa è la ragione per cui nel mondo dello stile, pur utilizzando sofisticati sistemi CAD tridimensionali, e persino costose apparecchiature di realtà virtuale, si preferisce generalmente l'approccio indicato. E' quello che accade nei centri di stile dell'automobile, dove s'inizia a costruire un mock-up fisico in scala dell'automobile, che successivamente è digitalizzato e modellizzato con un sistema CAD. Sul modello elettronico così ottenuto sono effettuate le varianti, fino al raggiungimento della soluzione finale. Queste tengono conto non soltanto dell'affinamento dell'idea stilistica iniziale, ma anche dei suggerimenti e vincoli forniti, in un contesto di concurrent engineering, da tutte le altre figure professionali coinvolte nello sviluppo del prodotto (manufacturing, engineering, marketing, eccetera).
Esistono in commercio numerosi sistemi CAD specializzati nel campo dell'architettura e ingegneria edile. In genere un'opera edilizia è più facilmente progettabile con tali sistemi, piuttosto che con un sistema MCAD, che è orientato ad applicazioni meccaniche. Ciò è vero per la progettazione di routine, che coinvolge semplici forme lineari. Ma se ci si addentra nell'antro fantasioso dell'architettura moderna d'autore, allora le semplici capacità di modellare forme prismatiche proprie dei sistemi ACAD (Architectural Computer Aided Design) risultano drammaticamente insufficienti. L'architetto creativo moderno si cimenta in geometrie che hanno complessità paragonabili a quelle proprie dello stile. A differenza di un oggetto di puro stile, un'opera architettonica ha un contenuto tecnologico che non può essere trascurato, ma che, al contrario, deve fondersi con la pura forma. Pertanto, sistemi che pur possedendo ottime capacità di modellazione per superfici, sono orientati alla grafica, piuttosto che alla progettazione, non risultano soddisfacenti. Un sistema MCAD general purpose, cioè non tarato su problematiche progettuali esclusivamente meccaniche, è in questi casi il più adatto per conseguire obiettivi artistici e tecnici insieme. CATIA risponde pienamente a tali requisiti. N'è testimonianza illustre il caso del Guggenheim Museum di Bilbao, ideato e interamente progettato con CATIA V4 dall'architetto canadese Frank Gehry, noto esponente dell'espressionismo moderno in architettura. Le opere di Gehry sono il trionfo della linea curva, al pari del barocco e del rococò, ma sono caratterizzate anche da marcati attributi meccanici, per le forme, per i materiali, per le tecnologie costruttive, e infine per la presenza di vere e proprie "collisioni" fra i vari corpi di fabbrica. Le superfici esterne del museo, che è un vasto complesso di edifici, sono superfici sculturate tipiche del free form design. Tali superfici, materializzate in titanio e pietra, "rivestono" una struttura reticolare in acciaio. Per avere un'idea della complessità dell'opera sono, forse, sufficienti alcuni numeri: 45.000 ore di progettazione, numerosi modelli CATIA tridimensionali dell'intero complesso e dei suoi particolari, 40.000 viste e sezioni. Gehry e il suo studio utilizzano sistematicamente CATIA V4, creando diverse versioni, fra le quali è scelta la soluzione finale. Un altro esempio tipico dell'arte di Gehry è il progetto della cosiddetta Casa di Lewis (figura 1), dov’è ancora più evidente l’impronta “meccanica” della sua architettura. L’utilizzo di CATIA V4 è indispensabile per modellare con precisione le complesse superfici che contraddistinguono le opere architettoniche di Gehry, per analizzare in dettaglio l’opera, per ottenere particolari e la copiosa documentazione cartacea, nonché per controllare l’impatto di varianti sui costi di realizzazione e sull’architettura dell’opera.
L’approccio metodologico di reverse engineering sintetico indicato è stato applicato al progetto di una chiesa che s'ispira all’opera di Frank Gehry. Il lavoro ha preso spunto dalla tesi di laurea in architettura, presso l'Università di Roma, di Irene Del Monaco (Chiesa Cattolica a Roma), ma la metodologia proposta è applicabile più in generale ad oggetti e parti meccaniche caratterizzate dalla presenza di forme complesse e il cui progetto rientra nella categoria del free form design. L'idea progettuale iniziale è stata espressa in un modello di creta appositamente realizzato, in scala 1:200 (figura 2). Il modello di creta presenta superfici esterne estremamente frastagliate, caratterizzate dalla presenza di numerose e accentuate parti convesse e concave.
Ad esso sono state applicate due tecniche di reverse engineering sintetico, una sofisticata, ma costosa, basata su un sistema di visione artificiale a scansione laser, l’altra, invece, semplice, ma economica, basata su un’apparecchiatura meccanica costruita dagli autori. Utilizzando entrambe queste tecniche, tramite CATIA V4, si sono realizzati due modelli elettronici distinti, che sono stati trattati con la medesima metodologia di modellazione per superfici. Il confronto dei risultati ottenuti nei due modelli ha condotto alla constatazione che, nel caso qui trattato di reverse engineering per finalità di free form design, la maggior fedeltà del modello virtuale ottenibile con la scansione laser, rispetto all’uso del nostro pantografo tridimensionale, non giustifica i maggiori oneri in termini di costi e difficoltà di reperimento dell’apparecchiatura. Infatti, nel nostro caso, non è necessaria una grande fedeltà e precisione di rappresentazione del modello fisico, raggiungibile con la tecnologia laser, ma è sufficiente trasferire la funzione di “bozza iniziale” dal modello fisico a un modello elettronico, trasformando così il “mock-up fisico-bozza” in un “modello elettronico-bozza”. L’utilizzo di un’apparecchiatura artigianale del tipo di quella da noi realizzata è quindi idonea per tali scopi.
La prima tecnica di reverse engineering da noi applicata si è avvalsa di una sofisticata apparecchiatura laser, ideata e realizzata dal Laboratorio Tecnologie Laser di Visione Artificiale del Centro di Ricerca di Frascati dell’ENEA, diretto dal dott. Giorgio Fornetti. In figura 3 è riportato lo schema dell'apparecchiatura. Questa è costituita da un diodo laser modulato in ampiezza e a frequenza 10-100 MHz, equipaggiato con una camera a scansione meccanica. - La tecnica dei fasci modulati in ampiezza è usata per applicazioni che implicano misure di medie e basse distanze, perché la metodologia di trattamento dei segnali, che implica una sottoconversione in frequenza e mixing dei campi ottici, permette una misura indiretta del tempo di transito del fascio sonda, attraverso una comparazione di fase del segnale retrodiffuso rispetto ad un fascio di riferimento. - Spiega il dott. Fornetti. L'ampiezza del segnale sinusoidale generato dal detector (in questo caso un fotodiodo a valanga) dipende dalla riflettività della scena, mentre la fase dipende dalla distanza del sensore dalla scena. Il software TEOT, integrato con l'apparecchiatura e appositamente sviluppato, elabora i segnali di fase e di ampiezza acquisiti, per ricavarne rispettivamente le misure di distanza e di riflettività dei vari elementi del target. Nella configurazione attuale, in cui questo è digitalizzato facendolo ruotare su una piattaforma girevole durante la scansione, il sistema è applicabile con buoni risultati ad oggetti a simmetria cilindrica. Per superare tali limiti e ottenere immagini distanza dell’oggetto direttamente in scala 1:1, senza necessità di tarature dell’apparecchiatura ad ogni suo utilizzo, il gruppo diretto dal dott. Fornetti sta mettendo a punto un nuovo sistema non più rotante, bensì statico e multivista. Dalla composizione delle differenti viste risulterà l’immagine distanza dell’oggetto tridimensionale, evitando così il delicato lavoro, via software, della “chiusura” o folding dell’immagine distanza attualmente disponibile come array bidimensionale.
Il software TEOT è in grado di fornire diversi tipi di output, fra cui il formato raster bitmap, il formato STL per la stereolitografia, e il formato ASCII della nuvola di punti digitalizzati per il reverse engineering. Per la possibilità di ottenere dalla scansione del pezzo fisico direttamente il file STL, questo prototipo d'apparecchiatura è particolarmente indicato per la clonazione di oggetti, poiché è in grado di fornirne, con la stereolitografia, una copia in resina, senza richiedere l'elaborazione del modello geometrico CAD.
La seconda tecnica di reverse engineering da noi impiegata rientra nella categoria delle macchine di misura a coordinate ed ha utilizzato come sistema di rilevazione del pezzo una semplice apparecchiatura costruita dagli autori, sulla base del noto principio di copiatura del pantografo. Si tratta sostanzialmente di un pantografo tridimensionale (figura 4), che consente di disegnare, su un foglio di carta, il profilo-sezione del pezzo a varie quote. Esso ha una struttura realizzata con un profilato commerciale in acciaio preforato a segmentazione predefinita e barre filettate. I piani portapezzo e di disegno sono stati realizzati in plexiglass, al pari dei blocchi di guida della testa di misura. Gli elementi di misura sono dei comuni righelli commerciali. L’orientabilità in direzione x,y del piano portapezzo è verificata costantemente con due livelle ad attacco magnetico poste ortogonalmente fra loro e solidali con il piano. La testa di rilevazione è un “hand helper” commerciale opportunamente modificato, con una punta scrivente, tenuta a pressione sul foglio da una molla, e una punta di feltro montata ortogonalmene ad essa e tenuta a contatto con il pezzo da un’altra molla. Il target è disposto sul piano portapezzo, la cui giacitura può essere regolata con quattro dadi che operano sulle quattro barre filettate di sostegno. Il costo del materiale costruttivo è risultato di circa centomila lire.
La scansione del modello di terracotta, per piani orizzontali, è stata ripetuta con incrementi di quota di 5 mm. Un vantaggio di un’apparecchiatura di questo tipo è la possibilità di digitalizzare punti, curve e aree particolari, in aggiunta alla strategia di scansione adottata. Le curve ottenute sono state convertite in immagini tramite uno scanner e quindi importate in Autocad come sfondi. Creato in Autocad un layer per ogni curva, vale a dire per ogni quota di scansione del pezzo, con il comando grid si è creata una griglia di passo adeguato alle caratteristiche della curva (curvatura e variazioni di curvatura) e con il comando snap si sono ottenuti per ciascuna di esse una serie di punti. I file in formato dwg contenenti le serie di punti "digitalizzati", ripartiti in layer, sono stati convertiti direttamente in formato CATIA V4. Con la funzione DRW®SP di CATIA V4, tali punti sono stati proiettati nel corrispondente piano nello spazio 3D (figura 5). . Si è così ottenuta la nuvola di punti descrivente l'oggetto fisico, costituita da circa 2100 punti (figura 6).
Dalla nuvola di punti così ottenuta, abbiamo ricavato le curve d'interpolazione, sulle quali è stato costruito il modello matematico per superfici del mock-up di creta.
Il primo problema che ci si è posto è stato la scelta dei punti da interpolare e della strategia d'interpolazione. Non tutti i punti digitalizzati sono stati interpolati, ma tutti sono stati presi in considerazione, poiché quelli non interpolati hanno costituito un prezioso riferimento per controllare lo sviluppo delle superfici. Le strategie d'interpolazione dei punti della nuvola, da noi adottate, sono state due: secondo le linee di scansione orizzontale dell'oggetto fisico, per le pareti della chiesa esposte a nord (figura 5) e ad ovest (figura 7), e secondo le direzioni topologiche definite dai contorni, per la parete esposta a sud (figura 8). La scelta è stata condizionata sia dalla filanza e complessità delle superfici da realizzare, sia dal tipo di superficie CAD utilizzata. Le curve d'interpolazione da noi usate sono spline, in modo da rispettare, almeno in prima battuta, il passaggio per i punti digitalizzati, senza avere limitazioni di numero [2] . Per tutte le pareti abbiamo ottenuto, prima di tutto, le curve d'interpolazione costituenti i contorni delle superfici da realizzare, poiché esse ne definiscono le due direzioni topologiche.
Le spline d'interpolazione ottenute, in generale, non possiedono un andamento "filante", per cui occorre modificarle in tal senso. Per renderle più lavorabili [3] , è stato ridotto il loro numero di archi, utilizzando una metodologia da noi già proposta [1]. Tale operazione trasforma la spline iniziale da curva perfettamente interpolante in curva approssimante rispetto ai punti d’input, e quindi dev’essere eseguita in modo da minimizzare lo scarto rispetto a questi. Tramite la funzione SPLINE/SPLINE2 + APPROXIM di CATIA V4, abbiamo ottenuto i nodi della nuova spline approssimante, selezionandoli sia dal set di nodi della spline originaria sia da punti di questa non facenti parte di tale set. Una regola utile per la scelta dei nodi è la seguente: per ottenere una spline approssimante che minimizzi lo scostamento dalla curva originaria nei tratti a maggior curvatura, occorre scegliere i nodi della nuova spline in corrispondenza dei punti estremi di detti tratti ove si manifesta un cambiamento apprezzabile di tangenza [1].
Per la superficie a vela della chiesa, o parete nord, che presenta geometria molto regolare e filante, abbiamo approssimato con archi le spline orizzontali d'interpolazione dei punti digitalizzati, ottenendo così la massima lavorabilità, essendo l'arco, in CATIA V4, una curva di Bezier. Sugli archi ottenuti abbiamo creato le superfici "patch", che in CATIA V4 sono superfici di Bezier, e quindi superfici a poli facilmente modificabili. Archi e patch sono i componenti elementari di cui sono costituite, rispettivamente, curve e superfici in CATIA V4.
Le pareti della chiesa esposte a ovest e a sud, invece, non presentano geometrie regolari e filanti. In particolare, la parete sud è caratterizzata da un susseguirsi di rientranze profonde, con impennate di diversa entità in direzione verticale. Pertanto, abbiamo suddiviso il suo sviluppo in porzioni di geometria più semplice e vicina alla forma quadrilatera o triangolare. Per seguire meglio l'andamento irregolare delle pareti ovest e sud, abbiamo utilizzato superfici di tipo net, costituite da una rete di due famiglie di isoparametriche, i cui punti d'intersezione sono i nodi della net [4] . Le net presentano numerose caratteristiche vantaggiose rispetto alle superfici polinomiali, di cui le fondamentali sono la minor occupazione di memoria, svariate possibilità di deformazione e lisciatura, e infine la possibilità di seguire bene forme molto tormentate. Quest'ultima caratteristica è dovuta alla possibilità di prevedere e controllare il loro sviluppo lungo entrambe le direzioni topologiche della superficie, che sono definite dalle due famiglie di isoparametriche della net e che sono note a priori, cioè prima ancora di realizzare la net. Infatti una famiglia di isoparametriche è individuata dalle spline (o curve poliarco [5] ) su cui poggia la net, mentre l'altra famiglia è costituita dalle curve poliarco individuate dai nodi di quelle. Una limitazione delle net, che è necessario tenere sempre ben presente per il loro corretto impiego, è che le curve su cui la net è costruita devono possedere lo stesso numero di archi. Questo vincolo spiega perché nel caso di geometrie che si discostano molto dallo schema rettangolare, si è quasi obbligati a scegliere le isoparametriche "parallele" ai contorni e non secondo altre direzioni, lungo le quali si otterrebbero curve di lunghezza molto variabile e quindi generalmente con diverso numero di archi. Affinché la net realizzi la superficie che ci si aspetta di ottenere, è necessario che le due direzioni topologiche definite dalle sue isoparametriche coincidano il più possibile con le direzioni topologiche della superficie, individuate dai suoi contorni.
Le spline ottenute per interpolazione dei punti d'input, per le pareti ovest e sud, costituiscono la prima famiglia di isoparametriche delle net da costruire. Queste, generalmente, non possono essere costruite direttamente su tali spline, poiché la seconda famiglia di isoparametriche , definite dai loro nodi, individuerebbe una direzione topologica diversa da quella definita dai contorni della superficie. In tali casi, occorre costruire opportunamente delle spline che definiscano la seconda direzione topologica della superficie da creare, e che abbiano nodi appartenenti alle isoparametriche della prima famiglia. Le net sono state costruite con la funzione NET1 su queste ultime spline (figure 7 e 8).
Quando è stato possibile, vale a dire senza alterare troppo la forma iniziale, le net adiacenti sono state rese continue in tangenza e quindi concatenate. La net concatenata, così ottenuta, è stata lisciata globalmente rispetto a tutti i nodi. Per la successiva fase di ricerca dello stile finale, si possono aggiungere isoparametriche, e quindi nodi, alle net originarie, per aumentare il controllo delle loro deformazioni. Volendo ottenere forme più levigate, ma con maggior scostamento dall’idea iniziale, le net possono essere convertite in patch.
Una volta completata la modellazione delle varie pareti della chiesa, abbiamo convertito in superfici polinomiali le net ed ottenuto il modello per superfici polinomiali dell’intera chiesa (figura 9).
1. L. Nicotra, Progettare forme , Progettare n° 235 luglio 2000 , Gruppo Jackson editore, Milano
2. L. Nicotra, Catia Shape Design, Memoria Tecnica A81895-01-MT Elettronica S.p.A., Roma 1994.
3. A. Saggio, Frank Owen Gehry Architetture Residuali, Testo Immagine, 1997.
Figura 1 - Frank Gehry – Casa di Lewis
Figura 2 - Modello di creta della chiesa
Figura 3 - Sistema di visione artificiale a scansione laser
Figura 4 - Pantografo tridimensionale
Figura 5 - Creazione in CATIA della nuvola tridimensionale di punti digitalizzati della parete nord della chiesa.
Figura 6 - Modello CATIA: nuvola dei punti digitalizzati della chiesa.
Figura 8 - Modello CATIA: superfici NET della parete sud della chiesa.
Figura 9 - Modello CATIA per superfici polinomiali della chiesa.
[1] Per ottenere questo, spesso s'inizia da bozzetti dell'oggetto di stile creati dallo stilista, come avviene per esempio all’Italdesign di Giugiaro e alla Carcerano.
[2] Una spline di ordine g+1 è una curva costruita su un insieme ordinato di n punti, detti nodi, e composta da n-1 archi di grado g , continua con le sue derivate sino all’ordine g-1. La spline, dunque, per definizione è una curva d'interpolazione dei suoi nodi.
[3] Vale a dire deformabili in maniera globale, in modo da evitare "protuberanze" localizzate.
[4] Com'è noto, le due famiglie di isoparametriche di una superficie polinomiale ne definiscono le due direzioni topologiche.
[5] Le net nel nostro caso sono costruite su spline, ma possono essere costruite, più in generale, su curve poliarco.